La Critica

FRANCESCO OGLIARI

Per sua natura Sandro Nardi si è sempre espresso con limpida coerenza in un rapporto di commossa partecipazione, di onesta chiarezza, alle vicende dell'uomo ("i partigiani", "gli esodi", "la civiltà contadina"), fino a identificarlo per un evolutivo e compartecipe processo con la propria verità con il proprio essere nella vita e nell'arte. Da questa comprensione e dal contatto con la più rigorosa arte contemporanea, nascono anche gli ultimi periodi della sua pittura, dalle "cattedrali" del 1973 sino ai "disorientamenti" del 1979. Non è una scoperta in chiave mistica dell'uomo, ma la conferma della sua solitudine e la violenta disperazione cui la solitudine lo conduce. E' la denuncia e la pietà per l'uomo, per i suoi inquietanti fenomeni. La vicenda artistica di Sandro Nardi si snoda all'insegna di un sentimento dell'esistenza nel quale si avvertono le istanze e il disegno della società tecnologica avanzata, la complessità della vita moderna e delle sue contraddizioni. Da questa posizione nascono nei nuovi cicli i contrasti tra i colori nitidi e squillanti, le linee rigorose e precise, le prospettive sospese e concave sopra vuoti desolati, e il sottofondo amaro, contenuto e doloroso di una rappresentazione sempre diversa nella forma ma insistita nella sostanza. Il ciclo delle "fasi lunari" propone la ricerca di nuovi immensi spazi siderali, entro i quali le forme si concatenano e ruotano in un alternarsi di archetipi che, attraverso una composta raffinatezza formale e tonale, costruiscono un concreto nucleo focale. Il ciclo dei "vertici" è dominato da una tensione articolata di cuspidi che avanzano verso obiettivi spesso eccentrici, accentuata dalle forme curve nello spazio che, proprio per la flessione coercitiva, sviluppano una pressione costante e angosciosa. Negli "sfasci" si alternano le composizioni - scomposizioni in un movimento che dilata spazi sempre più vasti dove i piani mentali non hanno limite; attraverso l'articolazione tonale il cui timbro emblematico scandisce alterne superfici ritmiche, propongono suggestive soluzioni formali. I "disorientamenti" trovano il loro punto focale dove iniziano i vari elementi che, alternati in un ritmo compositivo, si proiettano in diverse direzioni, quasi in un orientamento sempre mutevole, e si prolungano all'infinito in quello spazio afisico che si sviluppa oltre il limite proposto. Discorso complesso e altamente significativo: trovare sempre nuove soluzioni diviene espressione diretta, messaggio di un uomo. Costruire con l'ordine il mistero dell'universo significa presupporre la rappresentazione del positivo.

 Presentazione alla mostra antologica al Museo di Milano

 Aprile - Maggio 1980

 

UMBRO APOLLONIO

Le proiezioni visive delle immagini suggerite dalla realtà empirica che ci attornia hanno assunto, com' è arcinoto, aspetti sempre diversi nel corso dei tempi e per mano dei singoli artefici.  Ma l'ambizione principale di ognuno fu per lunga data di concorrere con tale realtà che stava lì, di fuori, fino a pareggiarla, a somigliarla in modo così preciso da potersi confondere e così quindi, a causa del verismo riproduttivo adottato, da identificare realtà naturale e realtà artificiale.  Simile convinzione e simile persuasione durarono oltre misura prima che ci si rendesse conto che il mondo esterno non era affatto indipendente, bensì composto di proprietà molteplici, e che per riprodurlo tale e quale era virtù di semplice bravura più o meno manuale.  Ciò nonostante  perseverò ancora nell'apparecchiare l'opera d'arte con modelli di cose esistenti, investendole di significati particolari, utilizzando cioè forme note, riconoscibili, familiari, oppure simboli e metafore oppure punti di vista che, deviando o deformando la nozione abituale, provocavano sorpresa e meraviglia.  Quando si accertò peraltro che l'affermazione creativa defl'uomo non era legata alla sua capacità di riprodurre e rappresentare le cose così come stavano oppure nella mera abilità di allestimento richiamandosi a forme di già formulate, ovvero quando si comprese che il dovere primo consisteva nel superare qualsiasi schematismo, si dette luogo a ciò che, più o meno propriamente, fu chiamato avanguardia storica e più tardi in modo più generico astrattismo, perchè non aveva più riferimento alcuno con l'esperienza immediata. Questi erano sommariamente i temi e gli argomenti che furono dibattuti durante il primo incontro che ebbi con Sandro Nardi ormai fanno quasi trent'anni.  Ma sono anche i momenti che segnano i passaggi e le riflessioni della sua vicenda artistica.  Oggi, che ripercorro la lunga strada percorsa, dopo che da allora ebbi informazioni soltanto saltuarie o indirette del suo lavoro, me li ritrovo immutati, benchè, logicamente, meglio maturati ed affinati.  A parte la rinuncia definitiva a qualsiasi rappresentazione veristica, anche di genere populista, sussiste ancora nel suo animo una non-opzione per una decisa figurazione non oggettiva, alla quale pur guarda da tempo ma, evidentemente, con cautela.  Cautela che, per una mente così acuta e sensibile, così edotta ed aperta, alla fine sembra coartare lo slancio iniziale del suo dipingere così tanto appassionato e provveduto. Linearismo ritmico ed armonico, di stampo geometrico, e colore intenso, vitale, appena impastato propongono, più che una certa tensione, un intrecciarsi di risonanze, dove l'interazione appunto degli emblemi fa risaltare un'area in cui essi si distribuiscono e si richiamano.  Alla fine ci si accorge - e questo appare chiaro nel suo colloquiare - che egli lavora contro ogni remora della tradizione, poichè la sua ricerca è indirizzata al ritrovamento di condizioni strutturali ed all'accoglimento di spinte mentali - si potrebbero pensare anche contenutistiche - che sottintendono una modificazione progressista dell'immagine e del messaggio.  Ciò che fa pensare non è di sicuro un'applicazione meccanica e ripetitiva di principi, che, come si può vedere, non sono coercitivi al punto da diventare dogmatici, ma il compendiare le figure, quali che siano: cavalli cattedrali fiori.... in una stilizzazione che pare ridurre il potere comunicativo, anche emotivo, della forma che pur scaturisce e lascia trasparire un- 'forte impulso innovativo, come si intravvede negli "sfasci" nei "vertici" nei "disorientamenti". Ma la storia di Nardi è proprio questa: la indeterminatezza di una presentazione priva di legami con il conoscibile ed il dibattito che ne consegue, e che, molto probabimente, attanaglia nel segreto la nostra intimità umana.

 

ANDREA ZANZOTTO

Se si vuol pensare a qualcuno che crede nell'arte come ci si affida all'ovvio e pur sempre rimotivato estrinsecarsi della vitalità quotidiana, prima di qualunque mitizzazione, concettualizzazione, ma tuttavia sentendo questa realtà come continuo' "emergere", farsi avanti e infine proggettarsi, allora, fra i non molti nomi che vengono alla mente, c'è di sicuro quello di  Sandro Nardi: che vive non "per" la pittura, ma "nella" pittura, come si sta e si gira in una casa, in un territorio.  Casa natale, territorio natale, corrispondente poi anche ad un determinato territorio fisico, geografico.

Nardi ha da sempre lavorato con tele, pennelli, colori, accettando tutto ciò che gli poteva venire nutriente dalla cultura figurativa nel suo scorrere, eppure tenendosi sempre a una qualche distanza da queste pur necessarie stimolazioni.  Come se, in fin dei conti, egli sapesse che il misurarsi col lavoro altrui, anche se vale molto per il proprio lavoro, è pur sempre un momento successivo e "minore" rispetto a quello dell'inesorabile forza che piega ogni artista verso il suo perpetuo bricolage di autodefinizione, entro un imperativo che, appunto, non è nemmeno sentito come tale.  Per l'artista infatti questo imperativo si confonde con le pulsazioni minime della vita, con le nuances motivazionali più labili e quasi impercettibili, pur nella loro tremenda insistenza.  Com'è insufficiente ogni interrogativo sulla vita, così a certi artisti poco importa il sapere "dove va, dove andrà l'arte", che arrovella (e talvolta non in modo infame) altri artisti.  Per quelli come Nardi, che tuttavia è ben lontano da qualsiasi forma di istintivismo o naiveté, ciò che importa è il sentirsi entro un'aura "rivolta, inclinata sull'arte", in un movimento che quindi non può non essere di ricerca. Dolente ricerca, ma non troppo, come, a chi vive, non può essere disforico un senso generale della vita nel suo farsi: pur se la tragedia vi appare improvvisa o vi si intrecci ostinata in penombra.

A Nardi, dunque, Follina poteva contare come Venezia o come Parigi o New York; se esiste quell'avido quasi drogato stimolo a investire tutte le proprie energie nella ricerca, e se, contemporaneamente, questa ricerca si presenta come la dimessa e ostinata manovra di un' artigianalità calata nel quotidiano, ci si ritroverà in ogni luogo senza aver mai abbandonato, se non a rari "barlumi", un unico luogo.  Ci si ritroverà ad avere fratelli nei più impensati siti della cultura artistica, ci si ritroverà figli di, o nipoti di, o anche precursori di.  Ma ciò non avrà molta importanza.  Sarà anche questo un fatto naturale, che non comporterà una tracotante noncuranza, ma piuttosto una lieve, dimessa nonchalance.  Questo ritrovarsi in compagnia darà sicurezza e non sicumera, lo si sentirà come fratello, in senso lato, ma lascerà intatta la ragione di una solitudine, di un fiorire come solitudine, tuttavia non ignara del fatto che la solitudine assoluta non esiste.

Ed è questa la costante che seduce, affascina, nel lavoro di Nardi: che certo si può periodizzare, come ogni esperienza artistica vera, ma che, pur nella oscillazione dei tentativi e dei risultati, rivela sempre un'esemplare coerenza.  Anzi, nemmeno esemplare: dobbiamo ancora dire naturale, come lo è l'identità di un corpo-psiche attraverso i vari momenti del suo esistere e nelle pur diverse incidenze degli incontri e degli scontri.

C'è un Nardi "antico" che può essere caro per certi interni piovosi.  Interni, appunto.  Piovosi, mossi da una loro meteorologia estremamente irrequieta ed ambigua.  Si nota in quelle opere una patina di fuliggine che non è mai del tutto tenebrosa, ma che ha quasi dei risvolti, delle iridescenze connesse a un "lato opposto della luce", anzi, che si presenta essa stessa come un "nord" della luce, ma che luce resta.  Sono interni che coinvolgono qualunque plein air, se ne arricchiscono, e a loro volta danno "internità" ai paesi e ai paesaggi.  Del resto chi conosce la zona delle Prealpì e delle colline tra le quali Nardi vive sa fino,a quali incredibili oltranze si spinga in tali zone questa "internità dell'esterno"; come se ogni particella del paesaggio fosse una "stanza preparata per", per esseri umani, o dèi, o metafisici e pur fisicissimi animali. Quest' atmosfera a sua volta coinvolge gli interni veri e propri, con figure di natura morta, oggetti, esseri viventi, in una circolazione cromatica e luministìca particolarissima. in ogni caso le "figure", dagli alberi agli esseri umani alle più articolate serie oggettuali sono sempre state colte da Nardi in quell'attimo, in quel raro punto in cui una loro esistenzialità pura (al di qua della polarizzazione in "concreto" e "astratto") emerge senza rompere i contesti referenziali dove sta come appiattato un dato psicologico, storico, altamente sociale.  In tali esiti coincidono, quasi dopo che sia stato compiuto un intero arco di divaricazione fino al "rientro", tensioni al simbolico più spinto, quasi all'ideogramma, al sigillo, da un lato e dall'altro una fulminata necessità di ricontrollare come "reale" l'essere, la matericità nel suo senso più ricco e denso di virtuale, mai chiusa nella propria "pesantezza".

Riuscirà allora assai semplice comprendere quel movimento per cui, ad un certo punto, nelle opere di Nardi la "luce opposta" vira sempre più nettamente verso la luce diretta.  E' un processo non traumatico, ma di ampliamento, seppur non privo di détours.  E non si tratta nemmeno di "maturazione".  Certo per Nardi hanno contato anche circostanze, soprattutto le solarità o solarizzazioni messicane, che con la loro strapotenza gli hanno attraversato la strada per rivelargli latenze e valori impliciti.  Di fatto, nel periodo più recente l'azione della luce diretta si è resa sempre più aperta, persino invadente, ma senza mai perdere in sottigliezza ed eleganza.  E' come se tutto il mondo di Nardi fosse stato drenato dal nord, dal "posterno" della sua casa, del suo habitat, della sua stanza unica, a un sud, o forse ad un fuori-luogo peraltro connesso al precedente, trasparente "anima" di questo.

Nella serie di quadri ispirati a varie costanti tematiche, si fa sempre più avvertibile un approdo quasi ad un "cuore" della luce (diffuso come il tutto) in cui le forme e i colori si sbilanciano appena sull'astratto in una danza di composizioni e scomposizioni.  E' come se si delineasse un gioco guidato in piena autonomia dell'autoriconoscersi delle forme come tali entro la portante e perenne maternità della luce.  Certamente i titoli della serie sono giustificati nel loro chiamare in causa una referenzialità mai rinnegata da Nardi, nemmeno in questo momento.  Le "cattedrali", "fiori I meccanici" (o ingranaggi di galassie?), "fasi lunari", "vertici di violenza", "sfasci", "disorientamenti" sono i nomi pubblici, di superficie, anche se non impropri né superflui.  Il nome segreto di queste serie e di queste tavole è uno solo: ricerca di equilibri, sempre più audaci e improbabili, nei trapassi della luce alle forme.  Si tratta di equilibri in cui cristalline staticità vibrano di segreti dinamismi mentali, rivolti "all'alto", quasi ad una "matesi totale".  Inutile fare nomi: le contiguità sono dichiarate: ma nello stesso tempo delicatamente scartate. Nardi va per la sua strada, lo guida la sua fedeltà che il più spesso risulta premiata.

 

FRANCO RESCA

Ci sono pochi pittori le cui opere esigono, per essere penetrate e intese, un tempo di lettura lungo quanto quello richiesto dalle ultime tele di Sandro Nardi; e poichè nel bagaglio comune degli usuali fruitori d'arte non figurano certo, oggi, le doti di una larga disponibilità e d'un'attenzione assidua, c'è veramente da chiedersi con apprensione che cosa essi possono trarre da un avvicinamento che si arresti alla prima pelle della pittura di Nardi, a una lettura formalistica paga di un accertamento dei fatti tecnici e cromatici, ma degustati come episodi sparsi, non ricondotti a un'unità sistematica.  Certo, anche a questo primo e immediato livello nessuno potrà disconoscere la sapienza del pittore, l'abile uso di un ampio e meditatissimo repertorio stilistico di segni, d'impasti, di toni, di ritmi; oppure il possesso d'una tavolozza rara e difficile, fatta di bruni luminescenti, di gialli, di verdi freddi, di bianchi abbacinanti.  Ma si avvertirebbe poi subito un senso di esosità e quasi di avarizia, che sembra trattenere pennellate e impulsi introvertendoli, sconnettendoli. per l'improvvisa comparsa di cesure e silenzi, di limiti e rotture inspiegabili a chi appunto non possieda una chiave efficace.  Eppure una chiave esiste, penetrante e sicura ed è peccato che Sandro Nardi non voglia aiutare il pubblico a trovarla più rapidamente: essa infatti sta nei dipinti '50 - '60: dipinti che ogni suo lettore dovrebbe rivedere per capire il senso profondo del discorso di oggi, ma che forse per una riluttanza a storicizzarsi Nardi non espone più.  Erano quadri in apparenza semplici, scabri disegno e di colore, di una essenzialità geometrica quasi impensabile in quel periodo in cui ancora dominava l'informale.  Con essi Nardi, pittore tra i più cromaticamente ricchi e dotati che operassero allora in Veneto, si liberava con forza del naturalismo, inventava un modo nuovo di porsi di fronte a se stesso e al reale; se conoscere è stringere legami con il mondo, o meglio riflettere sulle strutture che ci congiungono a quello, sulle modalità attraverso cui lo incontriamo, ce'ne riempiamo i sensi e la percezione, inaugurava un modo diverso di conoscenza, si proponeva cioè di fare dello stesso atto pittorico un atto di conoscenza.

L' operazione - non statica, si badi, che il conoscere non è mai statico - non era semplice: si trattava, servendosi degli strumenti più immediati, di muovere al di sotto del reale alla ricerca d'una struttura primaria capace di rappresentare l'essere nel mondo, non in chiave simbolica o decadente, ma valida per tutti in modo concreto e, soprattutto, umano.

Già in quelle sue opere di rottura Nardi chiedeva l'ausilio della geometria che, del reale, almeno dai greci in poi, costituisce il supporto metafisica, e, su uno sfondo ridotto all'essenziale inseriva un modulo che è andato arricchendo nel tempo fino a portarlo all'attuale perfezione cromatica e formale.  Che cosa significa dunque il modulo di Sandro Nardi, quel suo fascio di linee luminose che ora si piegano, ora s'incontrano e ora si spezano all'interno di chiare campiture geometriche?  A mio avviso si tratta d'una struttura primaria che mima il nostro essere nel mondo alla ricerca perpetua - ed anche angosciosa - di un equilibrio, di un ordine interiore. il pittore cioè si guarda e ci guarda vivere e sintetizza in quei suoi segni scattanti le sue e le nostre ansie, le insoddisfazioni, i dubbi, le cadute.  Non si tratta di psicologismo, si badi, c'è piuttosto in lui una coscienza finemente avvertita della dialetticità del vivere, delle contraddizioni insite, nell'intimo d'ogni umano.  Solo il reale infatti, rappresentato nei quadri dalle figure geometriche rimane immutabile, come fisso in una sua dimensione eterna: le linee invece spesso si frantumano, cadono addirittura per poi risorgere, ma faticosamente quasi, a nuova vita, e i colori allora si fanno abbacinati e le figure dello sfondo grige, verdi o rosa, come percorse anch'esse da un sottile brivido di scampata paura.  Sandro Nardi riesce a mimare queste "crisi", queste cadute e a comunicarcene il senso profondo senza scomporsi in grida, senza scatti nevrotici, con semplicità estrema (ma quanto raffinata!) di linee e di colori, con una sicura vena poetica, in definitiva, che si tinge, a volte, di balenii e di toni vagamente crepuscolari.

Sono i momenti dell'equilibrio raggiunto, dello stato di serena, anche se cauta, accettazione del reale: i verdi allora assumono tonalità più calde, i neri e blu si smorzano, gli ocra brillano di splendide luci diffuse... Qualcuno potrebbe definire "lirico-astratto" il suo discorso, ma io andrei cauto con le etichette: quella di Nardi, giova ribadirlo, non è mai stata una ricerca fine a se stessa di forme o di atmosfere, una "poesia sulla poesia", ma ha sempre tenuto presente il concreto, si è sempre tenuto a livello "conoscitivo".  Da ciò soprattutto deriva il fascino dei suoi quadri: quel senso sottile di turbamento e di tensione ci coglie di fronte ad essi, quel senso come di precarietà anche,- fatta di silenzi, di pause, di pudori che ha il dono di sorprenderci e d'incantarci.

Il fatto è che Nardi è tutto dentro i suoi segni: ci sono in essi le sue ansie di uomo coltissimo e perennemente insoddisfatto e c'è, insieme con la sua "fame" d'equilibrio, tutta la sua profonda intelligenza dell'umano, degli intrichi di gesti e di eventi che sono il nostro essere nel mondo.  Ed è per questo che la sua opera è sicuramente destinata a durare, per questo che essa esige una lunga e serena meditazione.

Home ] Biografia ] L'Arte ] [ La Critica ] Ritratti ] Eventi ] Info ]

E' vietata la copia e la riproduzione del materiale pubblicato sul sito